Ci siamo sempre chiesti come mai una statua di Andrea Mantegna, o meglio l’unica straordinaria opera d’arte scultorea che si conosca del grande artista lombardo di nascita ma attivo a Padova, sia finita a Irsina in Basilicata.

Irsina, la città del Mantegna in Basilicata

Abbiamo voluto scoprirlo visitando questa cittadina lucana affacciata sulla Valle del Bradano, dal 2018 inserita nei Borghi Più Belli d’Italia e ultimamente scelta come residenza definitiva da tantissime famiglie dal nord Europa, America e Nuova Zelanda. Tanto da diventare “casa e bottega” dell’artista maori Joseph Rickit, che vive da diversi anni a Irsina e qui ha aperto una Residenza per gli artisti.

Irsina

Innegabile è la bellezza di questo borgo in cui è bello perdersi tra palazzi nobiliari e chiese nel dedalo di vicoli, strade e piazzette del centro storico, che ha fatto da quinta scenica a diversi film tra i quali “Del perduto amore” con la regia di Michele Placido e “Prova a volare” con Riccardo Scamarcio ed Ennio Fantastichini, diretto da Lorenzo Cicconi Massi.

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Ma si potrebbe pensare a realizzare un lungometraggio con protagonisti Irsina e la sua lunga storia, testimoniata dai numerosi reperti archeologici. La cittadina fu chiamata Montepeloso dal Medioevo fino al 6 febbraio 1895, quando fu ribattezzata Irsina. Assediata e distrutta dai Saraceni, fu ricostruita dal Principe Giovanni II di Salerno e successivamente contesa tra Bizantini e Normanni. Primo conte normanno di Montepeloso, una delle dodici baronie che appartenevano alla Contea di Puglia, fu Tristano, cavaliere al seguito della casata Altavilla nel territorio del Vulture.

E ci colpisce che il secondo signore della città, nel 1068, fu Goffredo, nipote di Roberto il Guiscardo e conte di Conversano, la nostra città.

Secoli dopo passò sotto il dominio degli Angioini e poi degli Orsini Del Balzo a cui successero gli Aragonesi. Nel 1586 venne acquistata dalla ricca famiglia genovese dei Grimaldi e infine passò ai Riario Sforza, che furono gli ultimi signori feudali di Montepeloso.

Questo percorso storico ha lasciato considerevoli tracce nel tessuto urbano a cominciare dal convento di San Francesco, tra i più antichi della regione, sorto sui resti del castello normanno, rimaneggiato da Federico II. Accanto sorge la chiesa del XII secolo, ma restaurata a più riprese fino ad assumere l’attuale aspetto barocco. L’interno, a una navata con cappelle laterali, conserva un Crocifisso ligneo del XVII secolo, una statua seicentesca di San Vito e affreschi scoperti durante i lavori successivi al terremoto del 1980 che testimoniano che prima della trasformazione barocca la chiesa era interamente affrescata.

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Ma la vera meraviglia è sottoterra: la cripta interamente affrescata da opere di scuola giottesca realizzate attorno al 1370 che hanno mantenuto colori vivaci e brillanti. L’abbiamo visitata accompagnati dal signor Antonio Romaniello e vi si accede da un ingresso diverso da quello originario. Durante i lavori furono scoperti diversi scheletri ritrovati in posizioni sorprendenti: abbracciati e con chiari segni di terrore sul volto come si può notare nelle riproduzioni fotografiche appese sulle pareti. Misteriosi e tutti da indagare i motivi che avrebbero determinato tale evidente paura. C’è chi parla di terremoti, ma anche di sepolti vivi… Ci piacerebbe saperne di più.

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Molto si sa invece sugli affreschi, commissionati dai Del Balzo e realizzati da ignoti autori aiutati da maestranze locali. La cripta, utilizzata come ossario nei secoli successivi, fu riscoperta nel 1901 dallo storico locale Michele Janora.

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Nel centro della volta a botte sovrasta il “Pantocreator”, ossia il Padre eterno, mentre accanto alle scene della vita di Gesù e della Vergine e ai santi francescani S. Francesco, S. Chiara e S. Antonio, ci sono i dottori della Chiesa e i personaggi dinastici della famiglia Del Balzo, tra cui le committenti Margherita Del Balzo, duchessa di Taranto e Antonia Del Balzo, futura regina di Trinacria.

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Ma uno degli elementi più interessanti dell’intero ciclo pittorico è il richiamo ai Vangeli apocrifi con la raffigurazione dell’amputazione della mano del demonio “travestito” da pia donna per poter trafugare l’anima della Madonna prima della sua assunzione in cielo.

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Imponente è la Cattedrale dedicata Santa Maria Assunta, costruita nel XIII secolo e rifatta nel 1777, con facciata barocca e campanile a bifore di stile gotico.

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Nella visita ci guida il signor Vito Grazio Petrillo che, oltre a illustrarci le meraviglie custodite al suo interno “condisce” il racconto con narrazioni di vita vissuta che hanno reso tutto molto più avvincente. Ci ha raccontato che nella cripta, scavata nella roccia chiamata puddinga o conglomerato di Irsina e alla quale accediamo attraverso una buia scalinata, ci giocava da bambino perché fungeva da oratorio in cui i bimbi del tempo trascorrevano il pomeriggio quando era troppo freddo per giocare all’aperto.

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In tempi remoti era questa la chiesa principale e sul suo pavimento c’è la “rosa dei templari” o “fiore della vita” che ogni anno, durante il solstizio d’estate, viene illuminata da un potente raggio di sole.

Sorprendenti sono i “tesori” della cattedrale: dal fonte battesimale in marmo rosso alle tele di scuola napoletana del XVIII secolo tra cui quelle di Andrea Miglionico, fino al Crocifisso della scuola del Donatello, al di sopra dell’altare maggiore, con la particolarità del viso senza barba e i capelli realizzati in stoppa.

Ma l’elemento più prezioso è la magnifica statua marmorea di Sant’Eufemia attribuita al Mantegna da Clara Gelao, direttrice della Pinacoteca provinciale di Bari, con il sostegno di parte della critica tra cui Vittorio Sgarbi. Per altri critici, invece, tra cui Giovanni Agosti che ha curato l’esposizione del Mantegna al Louvre, l’opera è da attribuire a Pietro Lombardo.

Il dibattito è tuttora aperto, ma la tesi più accreditata è la prima grazie a un poemetto del 1592 che narra la vicenda di come grazie a un certo Roberto De Mabilia siano arrivate in un paese dell’entroterra lucano capolavori di arte veneta. Si tratta di “Vita divae Euphemiae Virginis et Martiris” scritto dall’arcidiacono di Montepeloso Pasquale Verrone che attesta l’arrivo a Irsina della splendida statua in pietra di Nanto, località presso i Monti Berici in Veneto, nel 1454.

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Nello stesso anno arrivarono a ornare la cattedrale anche la Madonna col Bambino, attribuita dalla stessa Gelao a Nicolò Pizzolo della cerchia del Mantegna, insieme alle reliquie del braccio della martire, custodite in un prezioso reliquiario, il Crocifisso di scuola donatelliana, il fonte battesimale in breccia rossa di Verona e una Colonna detta di Santa Croce con scolpiti sul capitello il nome Mabilia e la data suddetta.

Ma chi era Mabilia? Il signor Petrillo ci racconta che fu un prelato irsinese trasferito a Padova dove diventò rettore di san Daniele nonché notaio facoltoso e che, in occasione della nomina di Irsina a sede vescovile ordinata con bolla papale nel 1452, fece commissionare e portare nel suo paese queste opere.

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Tra le quali quella che più rapisce è la statua di Santa Eufemia il cui viso dallo sguardo penetrante muta aspetto a seconda della luce e del movimento e che può essere apprezzata in tutta la sua bellezza grazie al meccanismo che le permette di ruotare su se stessa.

La statua, alta 172 centimetri e pesante ben 350 chili, raffigura la santa con una mano nelle fauci del leone, a simboleggiare il martirio subito nel 304 d.C., mentre con l’altra sostiene un triplice monte con un castello a indicare l’antica Montepeloso. A guardarla si rimane incantati e non si stenta a credere che arrivino da ogni parte per ammirarla.

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Per concludere la nostra visita approfittiamo della disponibilità del signor Petrillo per visitare i bottini, lunghi cunicoli costruiti nel Medioevo per incanalare l’acqua che ancora oggi sgorga pura e trasparentissima dal sottosuolo e che poi giunge nella fontana settecentesca dalle tredici bocche.

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Non abbiamo fatto in tempo, invece, a visitare il Museo Janora in cui sono esposti più di 300 reperti che raccontano Irsina dalla preistoria alla civiltà ellenistica. Un motivo in più per tornare e per affacciarsi nuovamente al magnifico belvedere con di fronte il Monte d’Irsi e la valle del Basento, facendo da capo tappa a gustare le delizie a km 0 della Trattoria Nugent (Piazza Garibaldi cortile Nugent, 6 – +39 328 7768591) ricavata nel cortile dell’omonimo palazzo sorto sulle rovine di un castello medievale.

2 COMMENTS

  1. Guarda caso dovevo andare a conoscere proprio il Mantegna in mostra a Palazzo Madama di Torino l’anno scorso, e invece è saltato tutto. Però è incredibile come questi grandi del passato, pur non avendo a disposizione i mezzi che abbiamo noi, abbiano lasciato tracce per tutta la penisola… Avete saputo poi la storia di quegli scheletri?

  2. La cosa sensazionale è che si tratta dell’unica opera scultorea del Mantegna conosciuto per i suoi dipinti.
    Riguardo gli scheletri dalle foto sicuramente non si tratta di persone morte serenamente. Ci ripromettiamo di tornare a Irsina per carpire qualche altra informazione.

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