Pietragalla si trova in Basilicata sulla strada che dalla Campania porta alla Puglia. E proprio tornando dal nostro giro in Cilento abbiamo deciso di fermarci in questo piccolo borgo dal nome singolare. A proposito, anche se molti pensano che si riferisca a pietra gialla, quella del tufo della zona, pare che derivi dal gallo, l’animale simbolo dello stemma medievale, dove domina i tre monti su cui si stende l’abitato, Monte Terra, Monte Serra e Monte San Michele, e i tre archi che simboleggiano le tre vie di accesso al paese.
A Pietragalla un paesaggio fiabesco
Detto questo: quante volte siamo stati in Basilicata? Innumerevoli. Ma di Pietragalla e del Parco urbano dei Palmenti non avevamo mai sentito parlare. Poi abbiamo visto qualche foto online e questo villaggio di grotte che sembra uscito dritto dritto da un libro di favole per bambini ci ha incuriosito. Così ci siamo andati insieme al nostro Otto immergendoci nell’atmosfera fiabesca di questo luogo che pare costruito e abitato da piccoli gnomi!
Invece è uno straordinario esempio di architettura rupestre con costruzioni semi-ipogee, addossate una all’altra, a forma di grotta e ricoperte di terra e di erba. Fino agli anni ’60 dello scorso secolo queste particolari casette chiamate Palmenti erano ancora utilizzate a Pietragalla per la pigiatura dell’uva e la fermentazione del mosto che avvenivano nelle vasche scavate nella roccia che si trovano all’interno.
La loro origine non è antichissima in quanto vennero costruite a partire dall’inizio del XIX secolo per ricreare quelle caratteristiche microclimatiche tipiche delle grotte necessarie per far fermentare il mosto che dopo essere rimasto qui per 15-20 giorni, veniva travasato nelle botti e conservato nelle cantine ipogee chiamate rutt e collocate nel centro storico del paese. Ma per alcuni storici l’usanza di pigiare l’uva nel palmento risale al XVI secolo e segue una tradizione francese probabilmente radicatasi nella zona di Pietragalla con la dominazione Angioina. Altri invece legano i palmenti ai monaci che producevano il vino e quindi a un’epoca anteriore, intorno al primo Medioevo.
Incerta è anche l’origine del nome. Alcuni sostengono che derivi dal pavimentum in cui si pigiavano le uve, mentre altri lo fanno derivare dal verbo pavire, che descriveva l’atto del battere, del pressare gli acini.
Oggi nel Parco Urbano dei Palmenti se ne contano poco più di 200 e in molti è possibile entrare varcando il portoncino in legno per sbirciare oltre l’uscio dove si trovano due o tre vasche sul pavimento e diverse nicchie sulle pareti per riporre gli attrezzi. Osservando gli ambienti si può facilmente immaginare il processo a cui era sottoposta l’uva: veniva pigiata a piedi nudi, poi il mosto finiva attraverso un foro nella cisterna posta più in basso, e lì fermentava. Il vino così ottenuto veniva trasportato in botti di legno nei rutt per poi essere venduto.
Ogni palmento ha i muri spessi, in gran parte circondati da uno strato di roccia, che permettevano di mantenere la temperatura interna quasi costante, mentre l’areazione era garantita dal varco d’ingresso e da un’ulteriore apertura ricavata nella facciata, una piccola feritoia da cui fuoriusciva l’anidride carbonica della fermentazione, che altrimenti sarebbe stata letale per i vignaioli.
Il Parco urbano dei Palmenti è sempre accessibile, anche con gli amici a 4 zampe, ed è emozionante passeggiare in questo luogo inserito nei luoghi del cuore FAI e arrampicarsi sui tetti che hanno prati al posto di tegole! Un paesaggio magico che ricorda l’Irlanda con le casette di pietra bianca che spiccano nella distesa di verde.
Dalla sommità della collina più alta del Parco si ammira il panorama caratterizzato da una parte dal borgo sovrastato dal Palazzo Ducale e dall’altra dall’affaccio sulla valle in cui emerge inconfondibile la sagoma della città cattedrale di Acerenza.
La prossima volta che passeremo da queste parti visiteremo sicuramente anche il borgo dominato dal Palazzo degli Acquaviva d’Aragona, la famiglia comitale della contea di Conversano. Il complesso edilizio si articola in tre corpi distinti con varie fasi costruttive, ampliamenti e ristrutturazioni e custodisce nei maestosi saloni splendidi dipinti, arazzi e arredi d’epoca. Inoltre è stato muto testimone della vicenda di due giornate di battaglia dei cittadini pietragallesi contro i briganti: evento a cui è dedicata la lapide sulla facciata principale del Palazzo.
E abbiamo annotato che da visitare ci sono anche la Chiesa Madre, del 1200, ma modificata nel Settecento in stile neoclassico, e la Casa Museo della Civiltà Contadina. Poi, si potrebbe approfittare per tornare ad Acerenza, dove siamo stati tanti anni fa con Arturo: un altro imperdibile gioiello lucano.